Intervista a Michele Colturi, guida alpina
Qualche mese fa siamo stati contattati da Michele Colturi, guida alpina, che da lì a poco sarebbe partito per la Patagonia. In quell’occasione non abbiamo avuto modo di spedirgli Bivo in tempo utile per la sua partenza. Ci siamo rifatti in questa occasione, qualche giorni prima che parta per l’Alaska.
D: Vorremmo innanzitutto sapere di cosa ti occupi quando non sei impegnato nel trekking e nelle tue imprese in giro per il mondo.
Michele: La mia storia è un po’ particolare. Dopo avere lavorato per 15 anni presso un Istituto di Credito mi sono deciso a cambiare vita e ho rivolto tutte le mie energie verso ciò che amavo di più, vivere la natura ed in particolare la montagna. Per ciò, circa quattro anni fa, ho intrapreso il percorso formativo per diventare aspirante Guida Alpina. Un percorso fantastico che ho concluso l’anno scorso. Da allora svolgo questa professione a tempo pieno, alternando il freeride, lo scialpinismo e l’ice-climbing d’inverno, con l’arrampicata e le camminate in alta montagna in estate.
D: Quando è nata la tua passione per la montagna? Da quanto tempo sei una guida alpina?
Michele: Devo sicuramente la passione per la montagna a mio padre. Lui che è sempre stato un appassionato sportivo mi ha introdotto prima allo sci e poi senza volerlo all’arrampicata e all’alpinismo. Dico senza volerlo perché quando ho cominciato la mia attività alpinistica attorno ai 15 anni lui aveva già smesso, ma i suoi racconti e le fotografie che mi mostrava di tanto in tanto, nonché il trovare l’attrezzatura dismessa in cantina sono state una tentazione troppo forte. I primi anni ho scoperto questo mondo con mio fratello ed un gruppetto ristretto di amici, ma poi pian piano le valli attorno a casa non mi bastavano più ed ho cominciato a girovagare per le Alpi fantasticando sulle epiche ascensioni di Messner, Bonington, Cassin, Casarotto e poi via via l’alpinismo extraeuropeo dei fortissimi scalatori inglesi degli anni 70 e 80 nonché della Polonia e degli alpinisti dell’ Ex. Jugoslavia. Forse proprio gli alpinisti dell’est Europa mi hanno fatto capire come la determinazione nel raggiungere i propri sogni valga molto di più di ogni difficoltà.
D: Sappiamo che sei stato da poco in Patagonia, ci vuoi raccontare un po’ di dettagli della tua ultima impresa?
Michele: Si sono stato in Patagonia per la prima volta quest’anno con due miei amici e compagni del corso Guide. Era da molto tempo che fantasticavo di vedere quei luoghi magnifici di cui avevo letto tanto e alla fine l’occasione è arrivata, e che occasione! Direi che come prima esperienza non poteva andare meglio. Abbiamo organizzato la partenza in un solo mese e questo ha fatto si che viaggiassimo tutti e tre con voli aerei differenti. Mentre attendevo la mia connessione da San Paolo in Brasile con El Calafate in Argentina ricevo un sms dai miei amici che erano già arrivati ad El Chalten “ragazzo, abbiamo una finestra di bel tempo, appena arrivi partiamo per il Fitz Roy!”. Detto fatto arrivo la sera ad El Chalten dopo 3 giorni di viaggio e la mattina siamo già in marcia verso la parete. Eravamo un pò intimoriti nel puntare subito ad un grande obiettivo ma il tempo sembrava veramente bello e dopo qualche minuto di esitazione abbiamo puntato diritti all’attacco della Supercanaleta. Durante l’avvicinamento sono stato subito rapito dall’ambiente selvaggio e dall’immensità del luogo, proprio quello che mi aspettavo! Partiti alle 2 del mattino dalla nostra tenda sul ghiacciaio abbiamo subito capito che la via non era in grandi condizioni, pochissima neve e ghiaccio per tutta la prima parte solitamente abbastanza facile ci hanno messo subito alla prova e dopo una lunghissima giornata sui fianchi di questo incredibile gigante alle 21 raggiungiamo un piccolo posto da bivacco che ci regala in compenso uno strepitoso tramonto sul Cerro Torre. Stanchi ma felici il giorno dopo ripartiamo alle prime luci verso la vetta e alle 13 siamo in cima al Fitz Roy con un tempo meraviglioso! Credo che sia stato per noi la prima volta che ci siamo commossi in cima ad una montagna. Ma la vera sfida per i nervi è cominciata qui. Dopo qualche foto di rito partiamo subito con le calate in corda doppia per ritornare alla nostra tenda. Le temperature miti del pomeriggio hanno fatto si che la linea di discesa era diventata un colatoio d’acqua e l’esile ghiaccio che ci aveva permesso la risalita il giorno precedente si frantumava letteralmente sotto i nostri piedi. Arrivati fradici ma felici alla tenda verso le 22 decidiamo di proseguire ed uscire subito dal ghiacciaio con le lampade frontali camminando con le ultime energie fino alle 3 del mattino dove in una radura in mezzo agli alberi ci godiamo un meritato riposo. Questa è stata senza dubbio la salita più emozionante del mio viaggio. Nei giorni seguenti siamo riusciti anche a salire l’ Aguja Guilliamet per la via di Bonington. Un’altra incredibile ascesa fatta in velocità in 30 ore no-stop di arrampicata e camminata. Per ultimo abbiamo sperimentato anche il famoso vento patagonico (vi assicuro che non è una leggenda!!). Con una finestra di bel tempo di solo un giorno e mezzo tentiamo di portarci alla base del Cerro Torre per sfruttare i nostri ultimi giorni in Argentina. Dopo una prima giornata di tempo discreto combattiamo per quasi dieci ore contro un vento micidiale che ci costringe a desistere ben prima di arrivare alla base della via dei Ragni di Lecco sullo Hielo patagonico sur. Bè un motivo in più per pensare di ritornare in questa terra fantastica.
D: La missione che hai appena portato a termine è stata la più importante della tua carriera oppure hai collezionato altre imprese memorabili?
Michele: Direi che senza ombra di dubbio è stata l’avventura alpinisticamente più importante che abbia mai realizzato, un regalo inaspettato che mi ha ripagato di tanti sforzi e fatiche.
D: Tra le varie escursioni che hai fatto nella tua vita immagino sia difficile sceglierne una, ma, sforzandoti, riesci a dirci quella di cui il ricordo più ti emoziona? Ce la racconti?
Michele: Bè è veramente difficile scegliere un singolo ricordo. Ho dei bellissimi aneddoti legati alla mia passione verticale. Forse uno dei più intensi è stato un bivacco inaspettato sulla parete nord-ovest della Civetta. Che parete ragazzi! Avevamo scalato qualche giorno prima il Pan di Zucchero per la via Tissi. Eravamo in quattro e riuscimmo a salire abbastanza velocemente la via. Ci sentivamo in gran forma e decidemmo di ritornare a scalare un pò più in centro la grande parete per una via storica. La scelta cade sulla Andrich/Faè, una classicona di circa 1000 metri di sviluppo aperta da un ragazzino di diciannove anni nel 1934. Ci avevano detto che i canali di uscita probabilmente erano ancora bagnati dall’inverno ma il desiderio di scalare era stato più forte. Partiti di buon ora raggiungiamo la base e saliamo slegati la prima parte di zoccolo. Siamo in tre io, Marco e Marcello. Dopo 4-5 tiri cominciamo a capire che qualcosa non va. La via è troppo difficile rispetto alla relazione e stiamo salendo maledettamente lenti. Per fortuna il telefono prende, mandiamo un messaggio ad un nostro amico e ci facciamo mandare le relazioni delle vie limitrofe. Capiamo subito che siamo su una variante molto più dura. Ci caliamo per un paio di tiri e ripartiamo sulla linea corretta ma oramai avevamo perso 2-3 ore. Nonostante procediamo spediti il buio ci raggiungere all’inizio dei canali d’uscita. Decidiamo di continuare con le luci frontali anche perché non abbiamo un bel niente per bivaccare. Passo a condurre e mi ritrovo presto ad arrampicare su una parete molto bagnata. Sappiamo che manca poco all’uscita perciò mi impongo di proseguire anche se non si vede praticamente nulla. Dopo un paio di tiri parto da una cengetta inclinata con ancora parecchia neve sul fondo cercando un passaggio che non riesco a trovare, dopo un paio d’ore di battaglia sono esausto. I miei compagni non parlano più e sono mezzi congelati perché nel punto di sosta continua a colare acqua. Ridiscendo all’ultima protezione, una clessidra grande come un dito, mi allongio con una fettuccia e decido che aspetterò l’alba li. Non ho voglia di ridiscendere ed è impossibile continuare senza luce. Passo così la notte seduto su una mensolina grande quanto il dorso di un libro. Nonostante la fatica non posso non ricordare la stupenda vista che si godeva da lassù! Alleghe illuminata e tutta la valle avvolta nel nero della notte, nessun rumore e la sensazione di essere alla fine dei gran privilegiati a passare la notte li. L’indomani mi faccio calare fino alla sosta perché la posizione della notte mi ha addormentato le gambe e Marco passa a condurre. Dopo altri 2 tiri e 2 ore di combattimento raggiungiamo l’uscita alle 7 del mattino. E’ stata un’emozione fortissima raggiungere la vetta di prima mattina dopo una notte in parete.
D: La domanda successiva non può che essere sulla tua prossima spedizione. Sappiamo che andrai in Alaska…Ci vuoi raccontare qualche dettaglio in più?
Michele: Si il 14 maggio partirò alla volta dell’Alaska. Raggiungerò un mio amico Cileno che si trova già li ed insieme vorremo salire sulla vetta del Denali la montagna più alta del continente nord-americano con i suoi 6.190 metri. Sarà un’avventura impegnativa per tanti motivi. Il Denali è famoso inoltre per essere uno delle montagne più fredde del mondo. Per la sua posizione molto vicino al Polo Nord infatti è esposta ai terribili venti artici. Inoltre lo strato di atmosfera è particolarmente basso per cui avremo l’ossigeno che si ha solitamente a 7000 metri.
Entrambi non siamo mai stati a quelle quote quindi non sappiamo come reagirà il nostro corpo. L’avvicinamento al campo base è poi tutt’altro che agevole. Da Talkeetna bisogna prendere un piccolo aereo che ci depositerà sul ghiacciaio a circa 2200 metri. Da qui occorrono solitamente 5-6 giorni con gli sci per arrivare ai 4300 metri del campo base. Il nostro progetto è quello di portare gli sci con noi fino alla vetta per ridiscenderne poi uno degli impegnativi couloir sulla parete ovest. Sarà importante avere delle condizioni nivologiche stabili per affrontare questa difficile discesa. Utilizzeremo questa ascesa per acclimatarci a dovere e provare poi a salire la lunghissima ed elegantissima linea tracciata da Cassin e dal suo gruppo nel 1961, una cresta di quasi 3000 metri di sviluppo sulla parete Sud. Sarà una grande sfida con noi stessi in un ambiente super.
D: Alaska… e poi? Sai già dove ti porterà la tua passione per la vita all’avventura?
Michele: Bè ci sono un po di cose che vorrei fare prima di diventare troppo vecchio 🙂 , dei miei amici partiranno per una spedizione a settembre in Pakistan per tentare una cresta inviolata di 7000 metri, un gran bel progetto! Poi vorrei andare a trovare il mio amico in Cile prima o poi dove le opportunità non mancano. Ma per ora concentriamoci sull’Alaska.
D: L’ultima domanda non può che riguardare Bivo… come mai hai scelto Bivo come alimento per le tue escursioni outdoor?
Michele: Ho conosciuto Bivo per caso, stavo facendo trekking con un amico sulle Alpi e lui mi ha parlato bene di questo nuovo prodotto e me lo ha fatto provare. Mi è subito piaciuto, sia per la semplicità di utilizzo che per l’energia che ti dà durante le lunghe camminate senza appesantirti. Da lì ho pensato subito al suo impiego in alpinismo dato che coniuga la leggerezza alla necessità di nutrirsi in maniera sana. Porterò con me Bivo in Alaska per testarlo in condizioni ambientali ancora più al limite ma sono sicuro che il made in Italy non mi deluderà.
E tu stai organizzando un’impresa? O vuoi semplicemente raccontarci la tua ultima escursione? Scrivici ad info@bivo.it e pubblicheremo il tuo racconto sul blog Bivo.
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